riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera del Dott. Aurelio Sugliani
L’Anima della Terra e l’immaginazione del Cuore
Nel 1854 un nativo indiano, Capo Seattle, scrisse al Presidente degli Stati Uniti in merito alle intenzioni del governo di acquistare il territorio dove era stanziata la sua tribù.
La lettera recita:
“La terra è la madre di tutti noi. Tutto ciò che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi. Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all’uomo, bensì è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose sono legate fra loro come il sangue che unisce i membri della stessa famiglia. Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto ciò che si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non è l’uomo che ha tessuto le trame della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò che egli fa alla trama lo fa a se stesso[…]. Questa terra per lui è preziosa. Dov’è finito il bosco? È scomparso. Dov’è finita l’aquila? È scomparsa. È la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza”
Si evidenzia in queste righe il profondo senso di appartenenza che l’uomo aveva con la propria terra, con il proprio territorio. Per quanto oggigiorno l’uomo, in preda ad un vero e proprio delirio tecnologico, si ritenga “estraniato” dalla natura, invece ne è costutivamente parte integrante. Il nostro corpo ne è un vero e proprio esempio vivente. Ritroviamo l’elemento “terra” nei minerali delle nostre ossa, l’elemento “acqua” nel nostro plasma sanguigno, l’elemento “aria” nel nostro respiro e l’elemento “fuoco” nel nostro metabolismo. Una violazione della natura significa violare anche l’uomo. Ogni individuo, ogni persona che vive in un determinato territorio subisce una sorta di “imprinting” relativo al proprio ambiente. In lui si “formano” le immagini degli orizzonti, dei boschi che lo circondano, dei tramonti, dei paesaggi che si alternano con le varie stagioni. Queste immagini si imprimono profondamente nell’anima di ogni individuo e lo rassicurano sulla propria appartenenza e sulla propria identità. Non a caso quando un individuo si allontana dal suo ambiente lo coglie la “nostalgia” delle “radici”. La nostalgia, il dolore della lontananza si può fare ancora più forte quando si scopre amaramente che il luogo che a suo tempo fu rassicurante e confortante rischia di essere “deturpato”, per non dire stuprato, da quello che viene considerato il “progresso”. Tale avanzamento della civiltà per molti, ammalati da una delle peggiori malattie che è l’avidità e il potere, significa “costruire”. Con questo termine si intende costruire dappertutto, case, industrie, strade, centrali…significa bucare la terra, inquinare l’acqua, disboscare le foreste, rendere irrespirabile l’aria; in altre parole come dice il Capo Seattle “è la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza”. Possiamo accettare tutto ciò? Se vogliamo un futuro in cui possiamo coesistere con tutti gli essere viventi e non, dobbiamo renderci consapevoli che ogni ferita inferta all’ambiente significa ferire l’uomo nella sua anima, nella sua parte più profonda. Se aspiriamo al benessere, non solo nostro ma di tutti, dobbiamo cercare di comprendere l’intimo legame che ci lega alla natura. Si dice di un uccello che quando sente la fine avvicinarsi distrugge il proprio nido. Ecco, noi siamo su questo crinale, stiamo correndo questo gravissimo rischio. Dobbiamo quindi lottare per fare in modo che il nostro “nido” non solo ci possa ancora accogliere nella sua integrità, ma consentirci di “nutrire” l’anima di ognuno con la Bellezza che la natura ci offre ogni giorno.